Come la dopamina modula la flessibilità cognitiva nello striato

 

 

LUDOVICA R. POGGI

 

 

 

NOTE E NOTIZIE - Anno XV – 08 dicembre 2018.

Testi pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione “note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione Scientifica della Società.

 

 

[Tipologia del testo: RECENSIONE]

 

Una volta fu chiesto ad Hayflick, lo scopritore dell’esistenza di un numero massimo di mitosi cui può andare incontro una cellula animale (limite di Hayflick), di definire con una sola parola l’intelligenza, lui rispose: “Flessibilità”. Le teorie psicologiche dell’intelligenza sono ripartite generalmente in due classi, quelle che postulano l’esistenza di un fattore generale (G) all’origine delle prestazioni cognitive che comunemente si considerano intelligenti, e quelle che implicano l’azione di numerose funzioni specializzate (s) che interagiscono in vario modo; tuttavia, entrambe le classi di costruzioni interpretative riservano un posto privilegiato, tra i caratteri distintivi dell’esercizio dell’intelletto, alla capacità di modificare ed adattare schemi posseduti per risolvere problemi contingenti.

La flessibilità logica, particolarmente quella che consente di cambiare il modo di risolvere un vecchio problema o di adattare vecchi schemi per risolvere nuovi problemi, è l’abilità che in genere richiamiamo alla mente riflettendo sull’intelletto umano, anche perché è la più emblematicamente rappresentativa, ma oggi si studiano processi più elementari che si suppone l’abbiano preceduta nella filogenesi dell’intelletto e sono conservati nelle nostre procedure cognitive di base. Tali processi, nel loro insieme, sono denominati flessibilità comportamentale, e costituiscono quel patrimonio di pattern neurofunzionali che consente agli organismi animali di adattare le proprie azioni in rapporto ai cambiamenti ambientali.

Per indagare le basi molecolari, cellulari e dei sistemi neuronici che mediano tale flessibilità, le esigenze sperimentali, che comportano come sempre un massiccio riferimento a modelli animali, tendono a considerare i processi flessibili del cervello animale dei perfetti equivalenti comparati di quelli del cervello umano. L’opinione prevalente tra i ricercatori è che l’adattamento da parte di un animale all’esecuzione di un compito elementare in una maniera diversa da quella in cui l’ha appreso, equivalga alla capacità umana di rinunciare ad un’abitudine di pensiero in favore di una scelta più adatta alla circostanza. Se si accetta tale equivalenza[1], si comprende che gli studi sulla mediazione dopaminergica del comportamento flessibile possano far luce sulle basi di quella “compromissione della flessibilità”, descritta in disturbi psicopatologici tanto diversi quanto la dipendenza da sostanze psicotrope e il disturbo ossessivo-compulsivo.

La stima della capacità di essere flessibili in rapporto a compiti cognitivi semplici, ci aiuta a comprendere come debba essere intesa la flessibilità nella ricerca direttamente o indirettamente finalizzata all’individuazione di target terapeutici, ossia di obiettivi molecolari da raggiungere con molecole in grado di esercitare un’azione farmacodinamica terapeutica della perdita di questa abilità.

Studi condotti sull’uomo e sulla scimmia hanno riportato correlazioni tra differenze individuali nei livelli dei recettori dopaminergici D2 nel nucleo caudato e prestazioni in un compito sperimentale di discriminazione inversa, in cui relazioni contingenti stabilite tra stimoli astratti e ricompensa (o punizione) sono invertiti. La delezione genetica globale nel topo dei recettori D2 compromette la prestazione invertita, suggerendo un probabile ruolo causale di questi recettori nel supportare il comportamento flessibile.

Horst e colleghi, prendendo le mosse da questo esito sperimentale, hanno realizzato uno studio per definire il ruolo della segnalazione dopaminergica striatale legata a questa classe recettoriale nella flessibilità cognitiva.

(Horst N. K., et al., D2 receptors and cognitive flexibility in marmosets: triphasic dose-response effects of intra-striatal quinpirole on serial reversal performance. Neuropsychopharmacology – Epub ahead of print doi: 10.1038/s41386-018-0272-9, 2018).

La provenienza degli autori è la seguente: Behavioural and Clinical Neuroscience Institute, University of Cambridge, Downing Street, Cambridge (Regno Unito); Department of Psychology, University of Cambridge, Downing Street, Cambridge (Regno Unito).

Gli effetti della dopamina sono mediati dall’attivazione di 5 differenti classi principali di recettori, denominati con l’iniziale maiuscola della dopamina seguita dalla cifra, e solitamente raggruppati in D1-simili (D1, D5) e D2-simili (D2, D3, D4); tutti sono recettori accoppiati a proteine G (GPCR) e ne ricalcano la struttura con sette domini transmembrana idrofobici, un’estremità N-terminale extracellulare e un’estremità intracellulare C-terminale; sono metabotropici, cioè funzionano attivando proteine G che, a loro volta, agiscono su enzimi o su canali ionici. Poiché nessuno di questi recettori è un canale ionico, si può dire che modulano, ma non evocano una rapida trasmissione sinaptica. Inizialmente sono stati caratterizzati per il tipo di proteina G attivata: Gs (D1-simili) e Gi/Go (D2-simili).

I recettori dopaminergici esistono primariamente nel cervello ma sono stati trovati nel rene e nel letto vascolare periferico. Il primo recettore della dopamina identificato fu, naturalmente, il D1, che si rilevò accoppiarsi a Gs (e a Golf nello striato) e stimolare la formazione dell’AMP-ciclico. Mediante studi condotti con l’impiego di ligandi antagonisti si identificò poi il recettore D2 o, meglio, i recettori D2-simili: emersero subito le differenze in termini farmacologici e di localizzazione all’interno delle sinapsi. I recettori D2 sono accoppiati a proteine Gi/Go leganti GTP e inibiscono la formazione dell’AMP-ciclico. Mediante la clonazione molecolare sono poi stati identificati i vari sottotipi dei recettori D.

Lievi differenze di struttura molecolare sono state rilevate fra D1-simili e D2-simili; in ogni caso, i recettori dopaminergici vanno incontro a modificazioni post-traduzione, quali glicosilazione, palmitoilazione e fosforilazione. I recettori D2 presentano due varianti alternative mRNA che si esprimono come forma lunga del recettore (D2L) e forma breve (D2S). Lo sviluppo di topi knockout per D2L ha consentito di scoprire che la forma breve della molecola (D2S) funge primariamente da autorecettore sulla membrana presinaptica, mentre la forma lunga D2L è prevalentemente localizzata sulla membrana postsinaptica, dove interviene nella segnalazione eccitatoria dopaminergica mediando i noti ruoli di questa catecolamina nella neurofisiologia dell’encefalo.

I recettori D2 e D2-simili sono stati trovati in uno spettro notevole di regioni del cervello e, inizialmente, sono stati identificati mediante la loro alta affinità per farmaci antipsicotici radiomarcati, quali [3H]aloperidolo. L’importanza classicamente riconosciuta a questa classe di recettori dopaminergici nella fisiopatologia psicotica, e schizofrenica in particolare, è stata loro attribuita in seguito alla dimostrazione di un rapporto diretto tra la potenza di legame ai recettori D2 di molti farmaci antipsicotici e l’efficacia clinica, in particolare nel ridurre i sintomi positivi. Si ricorda anche che, sebbene nelle funzioni dopaminergiche dei nuclei della base encefalica e della corteccia cerebrale siano importanti entrambe le classi di recettori, D1 e D2, sono i recettori D2-simili a costituire il bersaglio terapeutico, tanto delle molecole impiegate nel trattamento della malattia di Parkinson quanto di quelle impiegate in psichiatria per la farmacoterapia dei disturbi psicotici.

Torniamo allo studio qui recensito.

Horst e colleghi, per esaminare direttamente il ruolo dei recettori D2 dei neuroni del nucleo caudato nella prestazione del compito invertito, hanno infuso l’agonista dei recettori D2/D3/D4 quinpirolo mediante una cannula cronicamente inserita nella parte mediale del nucleo caudato in marmoset maschi e femmine durante l’esecuzione di un compito sperimentale. I marmoset sono piccole scimmie del Nuovo Mondo appartenenti al genere Callithrix, come l’Uistitì, ossia la scimmia più piccola del mondo. Molte specie hanno un aspetto gradevole e sono note ai ricercatori per una neurofisiologia prossima a quella dei grandi primati antropomorfi.

Il compito sperimentale consisteva in una discriminazione seriale invertita da eseguire mediante touch-screen. Data la precedente evidenza di effetti dose-dipendenti del quinpirolo e di altre molecole ad azione dopaminergica, è stata costruita una curva completa dose-risposta.

Individualmente, le scimmiette presentavano marcate differenze nella sensibilità comportamentale a specifiche dosi di quinpirolo intra-caudato. Collettivamente, esibivano uno specifico deficit comportamentale bi-fasico nell’apprendimento inverso, essendo coerentemente compromesso a dosi relativamente basse e alte di quinpirolo. Da sottolineare che le dosi intermedie di quinpirolo intra-caudato determinavano un significativo miglioramento della prestazione nel compito inverso.

Concludendo, i dati emersi da questo studio supportano quelli delle precedenti osservazioni mediante neuroimmagini nell’uomo e nella scimmia, fornendo l’evidenza causale di una funzione a “U”, che descrive come la dopamina moduli la flessibilità cognitiva nello striato di un primate.

 

L’autrice della nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la correzione della bozza e invita alla lettura delle recensioni di argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare il motore interno nella pagina “CERCA”).

 

Ludovica R. Poggi

BM&L-08 dicembre 2018

www.brainmindlife.org

 

 

 

 

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[1] Molti psichiatri esprimono dubbi in proposito. Alcuni ritengono che la mancanza di flessibilità che si determina in disturbi psichiatrici diversi dalle psicosi e da quelli associati ad una macroscopica compromissione strutturale cerebrale, debba riportarsi più ad una riduzione, spesso temporanea, di efficienza intellettiva globale, che al deficit di un sotto-processo. Altri ancora, considerano artificiosa la categoria della flessibilità, e sostengono che l’essere flessibili in compiti psicomotori elementari non abbia alcun rapporto con la rigidità nelle dinamiche esistenziali di comportamento.